La Famiglia

IL SOGNO DI UNA GRANDE FAMIGLIA

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Si sposarono infine il 23 gennaio 1935, nel ricordo dello Sposalizio di Maria Vergine.

Il 20 dicembre dello stesso anno nacque una bambina, la prima, che fu battezzata il giorno di Natale. Non poteva essere scelta festività migliore per tale avvenimento, “poiché la vita della grazia è il vero giorno natalizio di un cristiano”, scriverà poi mamma Carmela. Si erano sposati col desiderio di formare una famiglia numerosa. E la famiglia numerosa venne. Nel frattempo, però, era scoppiata anche la guerra, che avrebbe portato di lì a poco lutti e distruzione a non finire e che già comportava restrizioni e sacrifici. Carmelina era a quel tempo molto delicata di salute. Dopo ogni maternità, terminato l’allattamento, subentrava la pleurite, da cui non poteva curarsi per l’impossibilità di riposo e di un’alimentazione più adeguata e sostanziosa. I sacrifici si susseguivano e, con l’iscrizione a scuola della primogenita, subentravano nuove preoccupazioni e la sofferenza dei primi distacchi.

Gesù, che riceveva ogni giorno nell’Eucaristia – una frequenza che non smise mai per tutta la vita – era l’Aiuto a portare i suoi tanti pesi.

Comunque, “ad ogni nuova maternità diventavo svelta come un uccellino, tanta era la gioia”, dirà poi.

Nel periodo che la famiglia “sfollò” a Barni, tra la fine del ‘42 e l’agosto del ‘45, nacquero il sesto ed il settimo figlio. Il papà giungeva da Milano con il rifornimento viveri che procurava settimanalmente nei negozi delle sorelle di Carmelina a Melegnano e con la scorta di giornali cattolici di cui i bambini più grandicelli si facevano diffusori.

 

COME IL SACRIFICIO DI ISACCO

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Pochi giorni dopo il ritorno a Milano – era l’ultima decade dell’agosto ‘45 -, Franchino, l’ultimo nato, si ammalò. Qualche linea di febbre, la gola arrossata, il bimbo piangeva spesso. Fu chiamato il medico, che disinvoltamente disse che non c’era di che preoccuparsi: un po’ di olio di ricino avrebbe risolto tutto. Così non fu. Ci si rese conto che il bambino peggiorava a vista d’occhio…

“Ricordo che imploravo piangendo la Vergine del Rosario, promettendo che lo avrei chiamato col nome di ‘Rosario’ se me lo avesse lasciato …” racconterà poi.

Quando ci si accorse che era la fine, nonostante il medico persistesse nell’illudere i genitori affranti, mamma Carmela, nel ricordare l’obbedienza pronta e generosa di Abramo, cui il Signore aveva chiesto la vita del figlioletto Isacco, pregò così: “Mio Dio, io non posso e non devo ribellarmi alla tua volontà. Se Tu vuoi questo mio figlio, che Tu mi hai dato, non voglio che me lo porti via, ma voglio essere io a donartelo”.

Era il primo di settembre e Franchino lasciava questa terra per il Cielo.
La sua dipartita – come quella, quasi vent’anni più tardi, del maggiore dei figli maschi, perito in un incidente d’auto – non lasciava spazio alla disperazione, ma a un profondo senso di pace e di serenità, frutto di un abbandono totale e incondizionato al volere del Padre, che sempre ha di mira il bene dei suoi figli.

 

SANTITÀ QUOTIDIANA

La guerra era nel frattempo terminata e lentamente si ponevano le premesse per la ricostruzione economica e morale del Paese.

In un’atmosfera fatta talora rovente per l’insorgere di ostilità e risentimenti maturati durante il ventennio precedente, Giuseppe Carabelli, forte della sua appartenenza ai Comitati di Liberazione Nazionale (C.L.N.), così come suona una testimonianza, seppe far risuonare parole di perdono e di riconciliazione e “portare a soluzione casi assai gravi, imponendosi con la sua figura di galantuomo, inattaccabile da qualsivoglia sospetto”.

La famiglia era tornata a stare nella casa dove abitava già prima, in piazza Gabrio Rosa, al Corvetto.

La vita riprese a scorrere, scandita per i due sposi secondo i ritmi abituali ed i consueti appuntamenti: ogni giorno, il mattino di buon’ora, la santa messa, poi, per lui, il lavoro in banca – dove, prima che capufficio era maestro e amico di tutti pronto a dare un consiglio e un aiuto a chiunque ne avesse bisogno-; per Carmelina, le faccende di casa e la cura dei più piccoli, accompagnato sempre il tutto da una preghiera o un canto. Poi, per ambedue il lavoro per l’Azione Cattolica, lei come propagandista, lui come segretario cittadino. La sera, infine, dopo cena, invariabilmente, la recita del rosario, i più piccoli sulle ginocchia del papà. Quando tutti andavano a letto, restava sempre accesa una luce fino alle ore piccole: la mamma a cucire o a rammendare, ma anche a confezionare qualche indumento e il papà curvo sul lavoro che si portava a casa dall’ufficio.

Fu di questi tempi – siamo nel 1947 – che mamma Carmela riprese e rinnovò la consacrazione alla Madonna, secondo la formula di S. Luigi Grignon de Montfort, consacrazione che aveva lasciato un poco affievolire dopo averla vissuta e diffusa in gioventù.

Attenta com’era a leggere anche nelle piccole cose dei “segni” del Cielo, vide un incentivo ed un apprezzamento nel ritrovamento casuale – la vigilia dell’Annunciazione, festa della “santa schiavitù a Maria” – ad opera della più piccola della nidiata, della sua medaglietta “distintivo” smarrita da anni.

 

NELLA NUOVA CASA

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La famiglia non smetteva di crescere (la undicesima ed ultima sarebbe nata nella festa dell’Immacolata nel 1955). La casa si era fatta ormai stretta.

Fu allora che la sera, tra le altre intenzioni del rosario, si cominciò ad indicare quella che se era “volontà di Dio” si riuscisse a trovare una casa un po’ più grande. La fiducia nella Provvidenza davvero non mancava, unita alla certezza dettata dalla promessa che dice: “Cercate il regno di Dio e la sua giustizia: il resto vi sarà dato in sovrappiù”.

E la casa più grande venne: una villetta a due piani, all’altro capo della città, vicino al canale Martesana. Era sì da sistemare, ma con tanto spazio che sembrava un sogno.

Alla fine del 1954 l’acquisto era concluso e la grande famiglia vi faceva il suo ingresso, frastornata e felice. Certo ora si trattava di dare “braccia e tempo” alla Provvidenza per far fronte ai prestiti e al mutuo contratto: chi era in età da lavoro si aggiunse così a papà Giuseppe mentre la mamma, presa la licenza di affittacamere, cominciò ad ospitare un piccolo numero di giovani lavoratori che trovarono nella casa un’atmosfera familiare e una scuola di vita cristiana

 

L’INCONTRO CON PADRE PIO

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Al settembre del 1950 data il suo primo incontro con P. Pio da Pietrelcina: incontro a cui mamma Carmela annetté il merito di un “cambiamento radicale” nella sua vita, nonché di una continua pioggia di grazie.

Ricorderà lei stessa come già alcuni mesi prima di compiere quel viaggio, ogni mattina, inspiegabilmente, veniva svegliata alle cinque in punto. Gettava uno sguardo all’orologio: le cinque. Diceva una preghiera e si riaddormentava.

Quando giunse a S. Giovanni Rotondo, trovo la spiegazione del fenomeno. Una penitente del frate stimmatizzato le confido infatti che Padre Pio soleva “svegliare” coloro che prendeva come figli spirituali, per tarli in qualche modo partecipi della santa Messa che egli celebrava a quell’ora.

Era giunta a S. Giovanni Rotondo accompagnata dalla Figlia maggiore, quasi quindicenne. Le strutture logistiche approntate per i pellegrini non erano in quegli anni di gran qualità: niente più che un porticato a fianco della chiesetta di S. Maria delle Grazie, dove ci si doveva in qualche modo arrangiare a dormire. Mamma Carmela pianse al pensiero che la figlia, febbricitante, forse a causa del lungo viaggio, avrebbe dovuto dormire in quelle condizioni. Con una preghiera fiduciosa alla Provvidenza, riuscirono tuttavia a trovare accoglienza in una casa.

L’indomani mattina, l’incontro con il Padre, alle cinque del mattino durante la santa Messa: un incontro nella Preghiera per eccellenza.

Tornò da quel “memorabile viaggio” con un amore ancora più grande alla preghiera e con un accresciuto desiderio di fare il bene, così da dare a tutto quanto compiva un’impronta di entusiasmo e di fervore cristiano.

 

QUANDO IL DOLORE BUSSA ALLA PORTA

Nel gennaio 1957 cominciarono a manifestarsi i primi sintomi del male che avrebbe in capo a due anni privato la famiglia di papà Giuseppe.

Scriverà in seguito mamma Carmela: “Dal gennaio 1957 al marzo 1959 fu il periodo più doloroso della mia vita matrimoniale, ma anche il più prezioso e il più caro, in cui ho potuto prodigarmi per mio marito e dimostrargli tutto il mio affetto”.

Di lui così scrisse ‘La voce’, mensile degli uomini cattolici: (…) “Quando il dolore e la malattia bussarono alla sua porta, sino dal primo istante pronunciò il suo fiat, rassegnato e convinto. Il suo letto divenne un altare, un pulpito eloquente. Ogni giorno, pur consapevole del male che lo minava e lo faceva spasimare nelle carni, egli offriva a Dio le sue preghiere, le sue indicibili sofferenze. Mai un lamento, mai un pensiero che fosse di smarrimento. ‘Voi andate, sacrificate il vostro tempo, portate le vostre parole… io qui prego e offro il mio contributo per l’Azione Cattolica, perché il Signore fecondi il vostro apostolato’.

Questo era quanto diceva a chi di noi si recava da lui per una visita fraterna. Stare con lui anche pochi istanti era come andare a una predica. La meditazione veniva spontanea, come spontanea era l’ammirazione per così salda tempra di cristiano. Aveva tanta fede nella Madonna. Andò anche a Lourdes, affrontando con fiducia i disagi del viaggio. Il suo incontro con la Madonna fu di gran conforto al suo soffrire. Ebbe anche una visita (il 31 gennaio 1959) di S. Em. il cardinal Montini – poi papa col nome di Paolo VI -, che, con gesto di paternità veramente commovente, si recò al suo capezzale, sostò con lui in preghiera, lo benedisse. Quanta gioia su quel volto intriso di sofferenza! Non finiva mai di lodare il Signore per così grande grazia.

Aveva avuta più volte anche la santa Messa in camera. Riceveva la Comunione con una pietà senza pari. Pareva di entrare nella casa di un antico patriarca: tutti quei figlioli, premurosi, affettuosi attorno a lui. E lui, buono, sereno, sempre vicino a Dio”.

Ricorderà ancora la mamma: “Fu all’inizio della malattia che la signora E.R., fondatrice della Compagnia di Maria Riparatrice, mi portò in regalo la statua della Madonna, che oggi troneggia sull’altare e che tante grazie avrebbe ottenuto… Davanti a questa statua pregavamo tutti in famiglia. L’avevamo posta in un angolo, sopra un tavolino, sulla parete opposta a quella dov’era appoggiato il letto di Pino…”.

La notte del Venerdì santo, il 27 marzo 1959, Giuseppe Carabelli chiudeva la sua esistenza terrena. Il card. Montini, raggiunto dalla notizia, ricordò edificato “quel sant’uomo della parrocchia di S. Agostino”.

Mamma Carmela fece stampare sull’immagine ricordo queste parole: “Amò intensamente Dio, la Chiesa, la numerosa famiglia e li servì sempre nel silenzioso nascondimento, con umile passione. Fece della professione la sua cattedra di apostolato, dell’Azione Cattolica la sua bandiera, del suo letto di dolore un luminoso altare, del suo corpo sofferente un’ostia da immolarsi con Cristo per la conversione delle anime”.